giovedì 18 giugno 2009

Il 4 luglio 1776 il Congresso continentale, in cui sedevano i rappresentanti delle tredici colonie inglesi Nordamericane, riunito a Filadelfia, approvò il testo della Dichiarazione d’Indipendenza. Il documento, all’apparenza così semplice, in realtà nasconde un’intricata rete di richiami. La presente lettura si basa sulla traduzione italiana a cura di Tiziano Bonazzi, alla quale sicuramente si rimanda l’attenzione del lettore, per l’ottimo apparato critico che segue una rigorosa ricostruzione filologica e permette anche di ricostruirne le fortune editoriali in Italia, dove la Dichiarazione non ha conosciuto molte traduzioni, sebbene fosse apparsa prontamente il 14 settembre 1776 nella Gazzetta Universale o Sieno Notizie Istoriche, Politiche, di Scienze, Arti, Agricoltura n. 74, e nelle Notizie dal mondo, VIII, n.74 a Firenze.

Il testo era stato redatto da un giovane Thomas Jefferson, successivamente terzo presidente degli Stati Uniti d’America.

Per tutta la vita egli avrebbe ribadito che, nella stesura del documento, non aveva apportato alcunché di nuovo o rivoluzionario, limitandosi a raccogliere i frutti del dibattito politico e filosofico di quegli anni. Parte delle sue argomentazioni anzi in sede di discussione assembleare furono lasciate cadere proprio perché ormai considerate obsolete; infatti tutti i riferimenti alle rivendicazioni dei sudditi di Sua Maestà erano ormai superate, trattandosi di una dichiarazione di Indipendenza politica.

Jefferson aveva anche aggiunto un paragrafo sull’iniquità della schiavitù, istituzionalizzata nelle colonie dal Re, non dagli americani, ma che fu considerato forse troppo esplicito su un punto ancora controverso, e lasciato cadere. Decisione collettiva fu anche l’appello al Supremo giudice del mondo nell’ultimo paragrafo, perché testimoni la rettitudine delle intenzioni dei rappresentanti nel proclamare l’indipendenza, e alla fine del medesimo paragrafo, in cui le vite e le fortune dei convenuti sono solennemente chiamate a testimoniare il loro impegno confidando nella protezione della Divina Provvidenza. Questi accenni alle modifiche del testo di Jefferson sono a sottolineare che il documento prodotto non è lo scritto di un singolo, ma la volontà di un’assemblea rappresentativa della nascente nazione; in un certo senso gli Stati Uniti realizzano l’ambizione del razionalismo moderno politico di uno stato che sia espressione della volontà (della maggioranza) del popolo, e che dalla reciproca fiducia dei contraenti tragga la sua forza.

Quest’interpretazione per molti anni si è scontrata con quella che vuole il repubblicanesimo di stampo machiavelliano come maggiore influenza sulla costituzione politica statunitense; oggigiorno si è più portati ad ammettere che le influenze siano entrambi importanti. In questo blog io ho scelto di sviluppare solo una linea guida non per negarne l’altra ma solo per seguire un particolare filo conduttore – quello dello sviluppo del concetto di diritto di resistenza, senza neppure considerarne ogni singolo momento, cosa che richiederebbe trattazione ben più estesa – perché l’argomento conduce direttamente dentro gli sviluppi anche recenti della storia politica statunitense, ed è a mio giudizio di estremo interesse ed attualità.

Detto ciò, la vicinanza del testo della Dichiarazione a quello lockiano balza subito agli occhi per i riferimenti puntuali; argomentazioni sollevate testualmente di peso dalle pagine del Secondo Trattato (“…ma quando una lunga serie di abusi ed arbitrii perseguendo invariabilmente lo stesso scopo…”), ma soprattutto la costruzione logica dello Stato come espressione di una somma di individui portatori di valori inalienabili, che Locke chiamava vita, libertà e beni, e che qui divengono vita, libertà e perseguimento della felicità, frase che alle nostre orecchie europee ha un sapore quasi televisivo tanto spesso l’abbiamo sentita recitare, ignorando che essa nasce nel cuore della cultura europea che ragiona sulla costruzione dello Stato Moderno. Cos’è infatti questo perseguimento della felicità se non il diritto di raggiungere i propri scopi che nella Dichiarazione sono ben indicati: portare a termine una conquista che è diretta, bene o male, contro quei nativi che vengono ricordati solo come capo d’accusa verso il Re che, sfruttandone la crudeltà in guerra, nella quale essi “non conoscono distinzione d’età di sesso e di condizioni”, li ha scagliati contro i coloni. Naturalmente questa è solo una delle voci che si levano contro un’autorità ormai irriconoscibile come tale; avendo rifiutato ascolto a quello che era il suo popolo, Giorgio III ha fatto sì che “l’esercizio di poteri legislativi, che sono indistruttibili, tornassero al popolo”, e questa è chiaramente la teoria lockiana ma sfruttata in tutt’altra direzione che quella auspicata dal suo autore, il quale interpretava, come già detto in precedenza, le colonie come legittimo possesso europeo, non come una potenziale indipendenza politica. L’opzione plausibile della disobbedienza, nel discorso lockiano, riferiva semmai ai popoli sottomessi dai coloni, i quali però a partire da questo momento dell’identità e dei soprusi subiti da tali popoli si fanno portatori.

Ma il concetto di individualismo libertario innestato dal pensiero di Locke nella cultura americana era destinato ad una longevità superiore a questi eventi storici. Quando nel 1849 Henry David Thoreau pubblica il saggio su La disobbedienza civile il concetto si era radicalizzato al punto da fargli affermare che, se esistono leggi, come la schiavitù, inaccettabili per un cittadino onorevole, egli è tenuto a disobbedire, esercitando un diritto di secessione individuale dalla Stato. Per Locke, il cui ragionamento era interamente fondato sul principio di maggioranza, questo sarebbe stato inconcepibile; ma come visto, nel pensiero americano la necessità della giustificazione ex-post era già venuta a cadere prima della rivoluzione. Forse una minoranza non può sottrarre sufficiente consenso da far cadere lo Stato ma può generare sufficiente disturbo alla sua azione. Da questo concetto, in seguito, si svilupperanno le linee di pensiero che giungeranno sino a Martin Luther King e Malcom X.

Ma quel che è più interessante notare, è che il pensiero nero si appropria di un’altra importante categoria lockiana: quella del lavoro come strumento di legittima estensione di proprietà sulla terra; in fondo il popolo africano, non i bianchi europei, aveva faticosamente lavorato con le sue mani per civilizzare l’America.

Ai due estremi la riflessione filosofica sembra tornare su sé stessa, come stesse ancora cercando una risposta alla faticosa domanda su cosa sia, veramente, la libertà.

Bibliografia essenziale:

Bonazzi, T. (a cura di), La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, Venezia, Marsilio, 1999

Jefferson, T., Antologia degli scritti politici di Thomas Jefferson, a cura di Alberto Acquarone, Bologna, 1961

Thoreau, H.D., Civil Disobedeience, (trad.it. Disobbedienza civile, Milano, SE, 1992)

Jeremy Rifkin, The European Dream , (trad.it. Il sogno europeo, come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il Sogno americano, Milano, Mondadori, 2004).




martedì 16 giugno 2009

Nascita di un mito: il Boston Tea Party...



Locke è pienamente consapevole che tutti gli uomini nascono dotati di un uguale diritto e dignità; nel contempo, la sua costruzione teorica, per affermare che quello di cui parla è uno Stato d’eccezione, necessita una discriminante tra la cultura europea e quella coloniale, che egli identifica nel diverso impiego che gli uomini fanno del lavoro. I frutti della terra infatti sono donati da Dio a tutti gli uomini indistintamente; ma il lavoro da essi diversamente applicato per appropriarsene è quella differenza, che segna un’inferiorità tale, una colpa si potrebbe dire, che giustifica il colonialismo europeo ed anzi, ne fa una missione civilizzatrice. Ben si noti che qui come altrove Dio è l’istanza che sottintende l’intero discorso; quindi Locke si riferisce a Dio quale istanza politica quando egli ne abbia bisogno per fondare la sua argomentazione su un referente comprensibile ai contemporanei, e nello stesso momento, lo esautora dalla tradizionale funzione di trascendente politico. Questa duplice visione della modernità, laica ma contemporaneamente fondata sui precetti di Dio interviene anche nella costruzione identitaria americana.

Naturalmente, e questo avrà una ricaduta nella stesura della Dichiarazione di Indipendenza, Locke può affermare che l’uomo europeo sia in grado di portare una legittima conquista oltreoceano perché si figura l’America come una wilderness, uno spazio vuoto da civilizzare faticosamente, ignorando l’esistenza dei nativi quasi davvero non esistessero.

La medesima argomentazione (non aver fondato un ordine politico basato sul lavoro) sarà applicabile nei confronti dei neri d’origine africana usati some schiavi, forzatamente importati a popolare le terre incolte.

È in forza di queste affermazioni di principio che la guerra si può definire giusta; ma, sebbene legittimi prigionieri, essi sono sottomessi, e come tale è prevedibile che, potendo, cercheranno di ribellarsi. Questo stesso discorso non vale per il cittadino inglese sottoposto alla legge, alla consuetudine e vincolato dai patti stipulati; ma in assenza di una pattuizione volontaria che rimetta l’arbitrato in mani superiori, il diritto a disobbedire resta intatto, e potenzialmente, esplosivo.

Su questa osservazione cominciarono i tumulti nelle colonie culminati nella rivoluzione e quindi nella Dichiarazione d’Indipendenza. Pietra di scandalo, ma in realtà pretesto tra gli altri, lo Stamp Act del 1765 fu vissuto dalle colonie inglesi come una prevaricazione inaccettabile, poiché, proprio come diceva Locke, tutto va bene se convenzionalmente pattuito ma no taxation without rapresentation, e poiché ogni tentativo di ricevere ascolto presso il re Giorgio III era caduto nel vuoto, sulla scia del costituzionalismo inglese, accampando il loro diritto alle tradizionali libertà inglesi, i sudditi delle colonie compirono uno straordinario salto logico riconoscendo ora sé stessi non più come tali, bensì come americani: un nuovo popolo, una nuova unità, un’identità. Che in quanto tale gode inalienabili diritti di elementare comprensione per chiunque.

Nel dicembre del 1773 un intero carico di tè della Compagnia delle Indie Orientali finisce a mare; è il famoso Boston Tea Party, che annega molto più di qualche cassa di tè; sono le leggi di Sua Maestà ad essere gettate a mare. L’episodio dà sfogo alle molte tensioni che si accumulano in quei ceti esistenti nelle colonie, artigiani, coltivatori, marinai, categorie unificate dall’essere fortemente necessarie alla sopravvivenza delle colonie stesse, al punto da rappresentare un’embrionale opinione pubblica, impossibile da ignorare per gli amministratori locali. I marinai che gettano le casse a mare sono vestiti come indiani Mohawk; ben lontano dall’essere un semplice travestimento questo è un trasferimento d’identità, una vera e propria sottrazione da parte dei coloni della legittima pretesa d’essere il popolo d’America, i nativi; mentre i veri nativi verranno considerati solo barbari, da respingere, e schiacciare.

D’altronde c’era un illustre antecedente a quest’aspettativa identitaria; la parola americans appare per la prima volta negli scritti di Thomas Paine, l’autore di Common Sense. L’idea era feconda e aveva fatto il giro delle colonie; dal suo pulpito l’oratore Jonathan Mayhew, congregazionalista bostoniano, aveva pronunciato una serie di discorsi sul diritto di resistenza alle ingiustizie inglesi, arrivando a dire che quale che sia la natura del governo civile (teologica o naturale) esso ha sempre un grado di implicita confidenza tra il popolo e gli incaricati , la cui autorità deriva solo dal trust, senza che i diritti dei contraenti siano loro ceduti; qualunque decisione che fuoriesca da questo rapporto è forza senza legge, perciò lockianamente è usurpazione e vi si può resistere. Sottoposti a molteplici abusi gli uomini devono resistere, o andrebbero contro il buon senso comune. Gli uomini sono giudici di sé stessi, ma in questi discorsi, differentemente che in Locke la giustificazione non sarà ex-post; è ex-ante. Dopo il 1765 ogni accenno all’essere sudditi britannici sparisce da tali orazioni; si tratta ormai di resistere ad un tiranno. La situazione si carica di complicazioni perché, come accennato, gli americani, disciplinati per la maggior parte da un comune credo protestante che, nonostante le diverse declinazioni comporta un atteggiamento diffuso, e dalla necessità, vista l’ampiezza e la dispersività delle regioni da gestire, di una larga base d’approvazione politica, già percepiscono il bisogno d’un riconoscimento identitario che sfugge completamente alla capacità di controllo inglese.

L’America è un’invenzione, ma di straordinaria efficacia. E quest’invenzione muta nella lotta di un popolo unito contro un usurpatore straniero, per la libertà. Dopo la terra, ai veri nativi americani, gli indiani, viene sottratta anche la coscienza identitaria. Il conflitto, da situazione di disagio istituzionale diviene lotta d’indipendenza politica.

Sullo sfondo, giocano le idee di Paine, che differentemente da Hobbes e Locke credeva che la società preesistesse al patto, necessario solo a dare un governo, le cui leggi saranno però regolate dal reciproco interesse che gli uomini già nutrono in natura. È un modo per negare che la società sia un frutto artificiale costruito dalla ragione; lockianamente quello così generato è meno di un patto, anche meno di un vincolo di trust; è un’allegiance (vedi post precedente), cui resistere è ancora più facile e socialmente non comporta alcun problema.

Si tratta ora solo di formalizzare la separazione tra le parti; dal punto di vista americano una legittima rivendicazione di autonomia che si cristallizza nella Dichiarazione d’Indipendenza.

Bibliografia essenziale:

Paine, T., The rights of men, (trad. It. I diritti dell’uomo, Roma, Editori Riuniti, 1978)

Scandellari, S., Il pensiero politico di Thomas Paine, Torino, Giappichelli, 1989

Laudani, R. (a cura di), La libertà a ogni costo, Torino, La Rosa Editrice, 2007

lunedì 15 giugno 2009

Il Contrattualismo razionalistico moderno dispiegato

Come visto nel post precedente, Hobbes è l’interlocutore polemico di John Locke. Egli certamente ne apprezza – e sa sfruttare - l’impianto razionalistico che seda ogni potenziale conflitto religioso/politico, e permette la costruzione di uno Stato ben organizzato, ma non può accettarne le estreme conseguenze. Si consideri un fatto; Locke era un ricco possidente, politicamente attivo, con interessi nelle colonie americane, al punto che contribuì a redigere la costituzione della Carolina. Come molti suoi contemporanei, cambiate le circostanze storiche, aveva interessi ben al di là della mera conservazione della vita; nel Secondo Trattato parla di salvaguardare vita beni e libertà, ovvero la proprietà. Dal suo punto di vista, lo stato di natura è molto più amichevole di quello hobbesiano; ma ciò che rende convincente la necessità di uscirne con una pattuizione collettiva è la salvaguardia di questo collettivo di proprietà individuali, poiché in natura tutti possono aggrapparsi alla legge naturale – ciò che possa esservi di più distante dal diritto naturale, il diritto di ciascuno su qualunque cosa laddove la legge di natura è un comando razionale che impone, per la salvaguardia della vita dell’interessato il non recare danno ad altri – e poiché ognuno, quando è giudice in causa propria tende alla parzialità, per creare un arbitrato oggettivo che tuteli gli interessi degli individui questi stessi formulano un patto che da origine allo Stato, il quale comunque non gode diritti sulle proprietà dei cittadini, ed è articolato su molteplici livelli di garanzia; il primo, il vero e proprio patto, un compact, o agreement, origina lo Stato; questo poi è governato da un legislativo con cui i cittadini stabiliscono un patto fiduciario che potremmo definire di secondo grado, un trust, e successivamente l’esecutivo è stabilito con un accordo di allegiance, ognuno dei quali presenta un maggiore grado di resistibilità politica in caso di cattiva condotta verso i cittadini. In ogni caso, nella costruzione lockiana ciò che verrebbe a cadere è il governo, giammai lo Stato, poiché la resistenza opera contro il legislativo incarnato dai legislatori, non nella sua astrazione.
Individuato l’errore teorico hobbesiano – è impossibile una concezione politica in cui sia vietato resistere a qualunque livello a un malgoverno – Locke procede alla separazione concettuale del vecchio dibattito sul diritto di resistenza – che bisogna porre ai margini della società civile – e quella che definisce semplice disobbedienza; e per fare ciò opera una divisione dello spazio atlantico, distinguendo tra le possibilità continentali e quelle coloniali. Perché lo Stato moderno possa funzionare senza incepparsi, esso non può essere il meccanismo storicamente esistente e palesemente difettoso che tutti tentano di attaccare, bensì un’eccezione, che per esser tale necessita di una norma, discutibile, che Locke individua appunto nelle colonie.
Non va perso di vitsa che quello lockiano è, nelle sue intenzioni, un modello teorico, auspicabilmente realizzabile ma che non conosce, al momento della stesura del Secondo trattato, alcuna realizzazione storica. Il fatto che poi le colonie americane, da Locke viste come wilderness da domare, abbiano successivamente sfruttato le sue teorie, è una circostanza storica che esula dalle intenzioni dell'autore, che si riferiva piuttosto allo Stato europeo.
INfatti quando parla di giustificabile disobbedienza egli si riferisce appunto allo spazio coloniale. Non è infatti mai possibile, sostiene, tollerare all’infinito un governo che sia usurpazione o mera conquista neppure se tale conquista sia il frutto di una giusta guerra. Prima o poi gli oppressi disobbediranno al governo loro imposto, rovesciandolo se possono; al contrario, nello Stato uscito dal patto, l’obbedienza sarà doverosa, e dove non fosse, sarà un’eccezionale resistenza che riconosce che qualcosa, nel processo d’ordine razionale avviato ad istituire lo Stato, si è guastato; al che, al fine non di destabilizzare – conseguenza della disobbedienza – bensì di ripristinare l’ordine precedente sarà lecito resistere, e tale resistenza, storicamente, si manifesterà nelle forme della rivoluzione, che però, in quanto tale, è un’eccezione ed il cui fine, questo è il punto, è istituente.

Chi potrà mai decidere se il patto è stato violato al punto da dare avvio ad una ribellione? La maggioranza; l’introduzione di questo principio è un grande contributo del pensiero lockiano rispetto a quello hobbesiano (ove la volontà sovrana è unitaria). Lo stesso appello al cielo a cui più volte Locke riferisce è una metafora per l’applicazione del diritto di resistenza; se nessun giudice sulla terra è atto a giudicare allora si può solo agire, appeal to Heaven, e le conseguenze storiche – di successo o fallimento – riveleranno se si era nel giusto, laddove giusto nient’altro significa che dare espressione alla volontà della maggioranza.

Nel prossimo post intendo affrontare più nel dettaglio questi punti che, nel loro sviluppo storico, come ho già accennato, sono parte integrante della piattaforma reale su cui sono sorti gli Stati Uniti d’America.

Bibliografia essenziale:

Locke, J., An Essay Concerning the True Original, Extent, and End of Civil War (trad.it. Il Secondo Trattato sul governo, introd. Di Tito Magri, trad. di Anna Gialluca. Milano, BUR, 1998). La presente traduzione si basa sul testo inglese curato da Peter Laslett, Two Treaties of government , Cambridge, 1960, 1967

Manti, Franco, Locke e il costituzionalismo. In appendice: Costituzione della Carolina antica­Antica costituzione inglese, Name edizioni, 2004

domenica 14 giugno 2009

Homo Homini Lupus


Lo scopo fondamentale di Thomas Hobbes, nel redigere il Leviatano, era disinnescare, e definitivamente, il rischio che dissidenti religiosi, o in futuro d’altra specie, potessero rovesciare lo Stato ri-gettando la società tutta nello stato di natura che Hobbes, notoriamente, considera come il peggiore dei mali; nel De Cive(Lettera dedicatoria) l’uomo è definito, riprendendo Plauto (Asinaria, v.495), il lupo per gli altri uomini; di conseguenza la Stato, primariamente istituito per salvaguardare la vita di ciascuno, non può essere destituito con la semplicità che LaBoétie gli attribuiva. Storicamente tacciato d’essere il padre dell’assolutismo, Hobbes in realtà teorizza uno Stato assoluto; il Leviatano, come appare sulla copertina della prima edizione, è un gigante che contiene al suo interno tutta la popolazione a lui sottomessa; è un perimetro, per così dire, un simbolo di sovranità assoluta nel senso di sciolta dalla legge, indivisibile ed inalienabile, teorie già esposte da Jean Bodin nei Six Livres de la Republique. Sennonché il substrato culturale che giustifica l’impianto teorico di Bodin è ancora religioso, mentre Hobbes fonda l’ordine regolatore del suo sistema su una mutua convenzione. Egli ammette che l’uomo abbia una libertà che esercita una ed una sola volta; unendosi nel patto che dà vita al Leviatano, rinunciando da quel momento in poi e per sempre al suo diritto naturale. Questa rinuncia, fatta nell’interesse dei contraenti, pone il sovrano non solo al di sopra bensì al di fuori della comunità; e tutte le leggi emanate dipenderanno da una convenzione nota e razionale, senza necessitare alcun fondamento morale basato su Dio. Sottrarre consenso a questo sovrano significherebbe far ripiombare l’umanità in quello spaventoso stato di natura per sfuggire al quale esso è stato istituito; certo potrà non essere sempre un sovrano buono e generoso, ma almeno garantirà la sopravvivenza fisica dei membri, scopo per cui è stato generato; disubbidirgli sarebbe stupido, poiché sarebbe come disobbedire a se stessi.

In Hobbes la politica non ha più fondamento trascendente; il Leviatano – lo Stato - è il trascendentale della politica, una rete di razionalità astratta che si diparte da un punto convenzionalmente individuato al di sopra e al di fuori della società, che attraverso i due strumenti raffigurati sulla copertina della prima edizione – spada e pastorale – definisce il perimetro entro il quale si articola la struttura pattizia.

In Foucault il potere non è più concentrato nello Stato e nei suoi strumenti di coercizione; è una realtà capillare, diffusa, omnipervasiva. In realtà quest’idea è già dentro Hobbes, ma implicitamente. Cosa la esplicita alla comprensione di tutti?

Un’osservazione parentetica. Guardando alle strutture del potere Foucault riconosce quelle operanti nelle tante sfere della società; lo strumento primigenio attraverso cui opera il potere è il sapere. La costruzione del potere avviene attraverso l’elaborazione del sapere. L’esempio è nello studio storico della follia come oggetto di una scienza specifica, la psichiatria, e non più di un sapere religioso come appare in Storia della follia nell’età classica e Sorvegliare e punire.
Il Panopticon benthamiano rappresenta per Foucault la metafora per eccellenza di una società ove non è più necessaria la concentrazione degli strumenti coercitivi in un’unica istanza poiché la stessa morfologia organizzativa della società esprime diffusivamente la realtà del potere e del controllo. La nascita della psichiatria, con il suo sapere fatto di classificazioni astratte determinerà l’ulteriore smaterializzazione/diffusione del potere attraverso strumenti di controllo puramente concettuali e convenzionali ma non meno rigorosi ed efficaci.

Il contributo lockiano consiste nel riconoscimento della grande intuizione hobbesiana, la potenzialità del convenzionalismo ma slegata dai limiti in cui ancora Hobbes intrappola lo Stato; riconoscendo che al potere si può resistere in via eccezionale Locke ne ammette l’eccezionalità e l’eccezionale efficacia che non si può più contestare con strumenti semplicemente umani. Per resistere allo Stato e alla sua struttura razionalizzante si devono verificare circostanze d’eccezione.

Bibliografia essenziale:

Hobbes, T., Leviathan, or the Matter, Form and Power of a Common Wealth Ecclesiasticall and Civil (trad. It. Leviatano, a cura di Asrrgo Pacchi, con la collaborazione di Agostino Lupoli, Bari, Laterza, 1989)

Hobbes, T., De Cive, a cura di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1992

Bodin, J., Republique (trad. it. I sei libri dello Stato a cura di M.Isnardi Parenti, Torino, Utet, 1964-97)
Farinelli, F., I segni del mondo : immagine cartografica e discorso geografico in età moderna, La Nuova Italia, 1992

Foucalt, M., Surveiller et punir: Naissance de la prison (trad. it. Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Torino, Einaundi, 1976)

Foucault, M., Folie et déraison. Histoire de la folie à l'âge classique (trad. It. Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1976)

mercoledì 10 giugno 2009

Cenni storici sul diritto di resistenza

Il processo di discussione intorno all’origine del potere sovrano implica la necessità di esplicitarne, con la legittimità, il grado di possibile resistenza da parte del popolo. Locke con grande finezza impugna la discussione precedente inserendo alcuni distinguo destinati ad avere ripercussioni politiche molto serie.

Tra le celebri prese di posizione sulla liceità di resistere al potere sovrano – che ovviamente in quanto potere supremo può presentarsi o degenerare ad un certo punto in forme di potere tirannico o dispotico – è quella di Tommaso d’Aquino, il quale, nella Summa Theologiae, si pronuncia a favore, in casi eccezionale, del diritto di resistenza; infatti, pur non potendo approvare alcuna forma di seditio, Tommaso ammette che se il potere, che deriva da Dio e deve esprimere l’ordine razionale dell’Essere nell’esercizio quotidiano della Giustizia, dovesse divenire abuso da parte di chi lo esercita allora, al solo fine di ristabilire l’ordine voluto da Dio, sarebbe lecito resistere, in casi estremi persino in modo violento. Sebbene Tommaso riconosca la disobbedienza come il più grave tra i peccati, come vuole la lettura di s.Paolo (Rm, 13), è pur vero che s.Pietro, in Atti, 5, 29, afferma che si deve obbedire a Dio prima che agli uomini. Venuta a mancare dopo la controversia luterana l’univoca certezza della mediazione pontificale, che potesse arbitrare le questioni a sfondo religioso, decidere cosa volesse Dio, specialmente in politica, era divenuta faccenda spinosa.

Meno celebre ma influente per secoli, Étienne de LaBoétie, prematuramente scomparso all’età di 33 anni, amico di Montaigne che ne curò nel 1580 l’edizione delle opere dopo la morte, aveva lasciato ai posteri un breve saggio intitolato Discorso sulla servitù volontaria, o Contr’Uno, nel quale la problematica semplicemente non più è posta; l’uomo naturalmente è libero e può sempre tornare a godere di tale libertà, semplicemente sottraendo consenso al governo in carica il quale così verrebbe a scomparire, restituendo all’uomo la sua libertà. Anche il pensiero medievale suggeriva di sottrarre il consenso al tiranno ma solo per obbedire a Dio, restando quindi in un ordine strettamente gerarchico; l’impostazione di LaBoétie rivela tutta la crisi di delegittimazione dell’ordine della politica. In un certo senso il suo pensiero torna di moda durante la rivoluzione inglese che portò al protettorato di Oliver Cromwell. I levellers, in particolare Richard Overton, si fecero portavoce di quest’intento di potenziale continua destabilizzazione sociale, dovuta alla convinzione che tutti gli uomini, creati uguali da Dio, possano deputare ma mai cedere il loro diritto naturale su sé stessi all’autorità sovrana; e quindi, con un cosiffatto consenso, potenzialmente in qualunque momento, possano riprenderselo. Sebbene questo non fosse il loro intento, Hobbes, che di sé stesso diceva d’essere “gemello della paura”, pensò d’impostare una costruzione teorica che a simili critiche risultasse inattaccabile.

Bibliografia essenziale:

LaBoétie, E. de, Discours de la servitude volontaire ou Contr'un (trad. it. Discorso sulla servitù volontaria, a cura di U.M. Olivieri, Torino, La Rosa, 1995 )

domenica 7 giugno 2009

I due Trattati sul Governo (1690)

Il Secondo Trattato sul Governo di John Locke, pubblicato anonimo nel 1690, era stato probabilmente oggetto di un costante lavorio da parte dell’autore per tutto il decennio precedente, come stabilito nell’Introduzione alla sua edizione dell’opera da Peter Laslett, sulla cui traduzione italiana si basa la seguente lettura del Secondo Trattato. Da ciò è presumibile, pur non pregiudicando un ragionamento da parte dell'autore precedente la Gloriosa Rivoluzione – l’evento storico che rovesciò senza spargimenti di sangue la dinastia Stuart consegnando il trono inglese alla casata di Guglielmo III d’Orange – che Locke fosse stato perlomeno esposto all’influenza dell’evento in sé, e condizionatone nelle sue riflessioni in fase di pubblicazione. Il testo lockiano è a tutt'oggi considerato un manifesto di pensiero della Gloriosa Rivoluzione e dei suoi esiti storici.

In disaccordo con altri interpreti, Laslett ritiene la stesura del Secondo Trattato antecedente a quella del Primo, che potremmo considerare agilmente come la “teologia politica” di Locke. Esso è una polemica indirizzata all’opera Il Patriarca di Robert Filmer, nella quale si teorizza che avendo Dio conferito ad Adamo autorità paterna sul genere umano e proprietà su tutte le cose del mondo, tali prerogative, trasmesse da Adamo ai Patriarchi e da essi ai re d’Israele, siano la base su cui per diritto di trasmissione poggia la legittimità di ogni monarca di governare assolutisticamente il suo popolo.

Tramite una serrata critica del testo biblico, conosciuto anche nell’ originale ebraico, Locke dimostra che la paternità conferita da Dio ad Abramo non è una forma di diritto assoluto né tantomeno esiste un possesso esclusivo delle cose del mondo; inoltre, ogni figlio di Adamo, indipendentemente dalle prerogative particolari del progenitore, ne sarebbe stato legittimo erede, e nell’impossibilità assoluta di stabilire i diretti discendenti di Adamo tutti gli uomini sono dotati di pari diritti. Il punto fondamentale qui stabilito da Locke per gli sviluppi successivi del suo pensiero è che la comunicazione diretta tra Dio e gli uomini, se mai c’è stata, ora è interrotta; ed in questo spazio vuoto, desacralizzato, si sviluppa il pensiero contrattualistico, una concezione politica che non necessita più di alcuna intermediazione tra cielo e terra come era stata tradizionalmente quella pontificale.

Il punto in questione era già stato affrontato da Hobbes nella sua celebre opera Il Leviatano, laddove dimostrava, con un'abile esegesi biblica, che l'unico punto certo della dottrina cristiana, come appare in Matteo, 16,18, è che il Cristo è tale; e per il resto l'umanità non può avere altre certezze né tantomeno ulteriori diretti rapporti con Dio. In questo modo il punto caldo della polemica scatenata dal luteranismo in poi - quale sia la giusta forma di rapportarsi a Dio - viene a cadere; nella societas christiana la mediazione papale era infatti indispensabile, ma nella nuova società in cui così tante interpretazioni si affastellano non è possibile risolvere pacificamente la querelle a meno di lasciarla cadere; ed è proprio questo lo scopo prima di Hobbes e poi di Locke; rendere innocuo il dibattito religioso, processo che, dopo la diffusione dei lavori di Locke, si può praticamente considerare concluso.

Bibliografia essenziale:

Locke,J., An Essay Concerning the True Original, Extent, and End of Civil War (trad.it. Il Secondo Trattato sul governo, introd. Di Tito Magri, trad. di Anna Gialluca. Milano, BUR, 1998). La presente traduzione si basa sul testo inglese curato da Peter Laslett, Two Treaties of government , Cambridge, 1960, 1967

Due Trattati sul Governo, col Patriarca di Robert Filmer, a cura di L. Pareyson, Torino, UTET, 1982

Dunn, J., Il pensiero politico di John Locke,

Viano, C.A., Il pensiero politico di Locke, Roma-Bari, Laterza, 1997