martedì 16 giugno 2009

Nascita di un mito: il Boston Tea Party...



Locke è pienamente consapevole che tutti gli uomini nascono dotati di un uguale diritto e dignità; nel contempo, la sua costruzione teorica, per affermare che quello di cui parla è uno Stato d’eccezione, necessita una discriminante tra la cultura europea e quella coloniale, che egli identifica nel diverso impiego che gli uomini fanno del lavoro. I frutti della terra infatti sono donati da Dio a tutti gli uomini indistintamente; ma il lavoro da essi diversamente applicato per appropriarsene è quella differenza, che segna un’inferiorità tale, una colpa si potrebbe dire, che giustifica il colonialismo europeo ed anzi, ne fa una missione civilizzatrice. Ben si noti che qui come altrove Dio è l’istanza che sottintende l’intero discorso; quindi Locke si riferisce a Dio quale istanza politica quando egli ne abbia bisogno per fondare la sua argomentazione su un referente comprensibile ai contemporanei, e nello stesso momento, lo esautora dalla tradizionale funzione di trascendente politico. Questa duplice visione della modernità, laica ma contemporaneamente fondata sui precetti di Dio interviene anche nella costruzione identitaria americana.

Naturalmente, e questo avrà una ricaduta nella stesura della Dichiarazione di Indipendenza, Locke può affermare che l’uomo europeo sia in grado di portare una legittima conquista oltreoceano perché si figura l’America come una wilderness, uno spazio vuoto da civilizzare faticosamente, ignorando l’esistenza dei nativi quasi davvero non esistessero.

La medesima argomentazione (non aver fondato un ordine politico basato sul lavoro) sarà applicabile nei confronti dei neri d’origine africana usati some schiavi, forzatamente importati a popolare le terre incolte.

È in forza di queste affermazioni di principio che la guerra si può definire giusta; ma, sebbene legittimi prigionieri, essi sono sottomessi, e come tale è prevedibile che, potendo, cercheranno di ribellarsi. Questo stesso discorso non vale per il cittadino inglese sottoposto alla legge, alla consuetudine e vincolato dai patti stipulati; ma in assenza di una pattuizione volontaria che rimetta l’arbitrato in mani superiori, il diritto a disobbedire resta intatto, e potenzialmente, esplosivo.

Su questa osservazione cominciarono i tumulti nelle colonie culminati nella rivoluzione e quindi nella Dichiarazione d’Indipendenza. Pietra di scandalo, ma in realtà pretesto tra gli altri, lo Stamp Act del 1765 fu vissuto dalle colonie inglesi come una prevaricazione inaccettabile, poiché, proprio come diceva Locke, tutto va bene se convenzionalmente pattuito ma no taxation without rapresentation, e poiché ogni tentativo di ricevere ascolto presso il re Giorgio III era caduto nel vuoto, sulla scia del costituzionalismo inglese, accampando il loro diritto alle tradizionali libertà inglesi, i sudditi delle colonie compirono uno straordinario salto logico riconoscendo ora sé stessi non più come tali, bensì come americani: un nuovo popolo, una nuova unità, un’identità. Che in quanto tale gode inalienabili diritti di elementare comprensione per chiunque.

Nel dicembre del 1773 un intero carico di tè della Compagnia delle Indie Orientali finisce a mare; è il famoso Boston Tea Party, che annega molto più di qualche cassa di tè; sono le leggi di Sua Maestà ad essere gettate a mare. L’episodio dà sfogo alle molte tensioni che si accumulano in quei ceti esistenti nelle colonie, artigiani, coltivatori, marinai, categorie unificate dall’essere fortemente necessarie alla sopravvivenza delle colonie stesse, al punto da rappresentare un’embrionale opinione pubblica, impossibile da ignorare per gli amministratori locali. I marinai che gettano le casse a mare sono vestiti come indiani Mohawk; ben lontano dall’essere un semplice travestimento questo è un trasferimento d’identità, una vera e propria sottrazione da parte dei coloni della legittima pretesa d’essere il popolo d’America, i nativi; mentre i veri nativi verranno considerati solo barbari, da respingere, e schiacciare.

D’altronde c’era un illustre antecedente a quest’aspettativa identitaria; la parola americans appare per la prima volta negli scritti di Thomas Paine, l’autore di Common Sense. L’idea era feconda e aveva fatto il giro delle colonie; dal suo pulpito l’oratore Jonathan Mayhew, congregazionalista bostoniano, aveva pronunciato una serie di discorsi sul diritto di resistenza alle ingiustizie inglesi, arrivando a dire che quale che sia la natura del governo civile (teologica o naturale) esso ha sempre un grado di implicita confidenza tra il popolo e gli incaricati , la cui autorità deriva solo dal trust, senza che i diritti dei contraenti siano loro ceduti; qualunque decisione che fuoriesca da questo rapporto è forza senza legge, perciò lockianamente è usurpazione e vi si può resistere. Sottoposti a molteplici abusi gli uomini devono resistere, o andrebbero contro il buon senso comune. Gli uomini sono giudici di sé stessi, ma in questi discorsi, differentemente che in Locke la giustificazione non sarà ex-post; è ex-ante. Dopo il 1765 ogni accenno all’essere sudditi britannici sparisce da tali orazioni; si tratta ormai di resistere ad un tiranno. La situazione si carica di complicazioni perché, come accennato, gli americani, disciplinati per la maggior parte da un comune credo protestante che, nonostante le diverse declinazioni comporta un atteggiamento diffuso, e dalla necessità, vista l’ampiezza e la dispersività delle regioni da gestire, di una larga base d’approvazione politica, già percepiscono il bisogno d’un riconoscimento identitario che sfugge completamente alla capacità di controllo inglese.

L’America è un’invenzione, ma di straordinaria efficacia. E quest’invenzione muta nella lotta di un popolo unito contro un usurpatore straniero, per la libertà. Dopo la terra, ai veri nativi americani, gli indiani, viene sottratta anche la coscienza identitaria. Il conflitto, da situazione di disagio istituzionale diviene lotta d’indipendenza politica.

Sullo sfondo, giocano le idee di Paine, che differentemente da Hobbes e Locke credeva che la società preesistesse al patto, necessario solo a dare un governo, le cui leggi saranno però regolate dal reciproco interesse che gli uomini già nutrono in natura. È un modo per negare che la società sia un frutto artificiale costruito dalla ragione; lockianamente quello così generato è meno di un patto, anche meno di un vincolo di trust; è un’allegiance (vedi post precedente), cui resistere è ancora più facile e socialmente non comporta alcun problema.

Si tratta ora solo di formalizzare la separazione tra le parti; dal punto di vista americano una legittima rivendicazione di autonomia che si cristallizza nella Dichiarazione d’Indipendenza.

Bibliografia essenziale:

Paine, T., The rights of men, (trad. It. I diritti dell’uomo, Roma, Editori Riuniti, 1978)

Scandellari, S., Il pensiero politico di Thomas Paine, Torino, Giappichelli, 1989

Laudani, R. (a cura di), La libertà a ogni costo, Torino, La Rosa Editrice, 2007

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